16 ottobre 1978. E’ pomeriggio
inoltrato. A Via Portuense, è ancora più buio. Stretta com’è dal grigio
muraglione della ferrovia che limita la luce del tramonto. Sono solo in casa, e
guardo la TV. 2^ media. Come al solito all’inizio dell’anno parto sempre con
lentezza. Mamma dice che risento dei mesi estivi passati a Capranica “che mi fa scorda’ tutto, pure come si parla”.
In effetti è vero. Mi bastava un giorno di vita “capranichese” per comportarmi –
e parlare – come tale. Nasale e dialettale. Dovevo farlo per forza. Io ero
“romano” per tutti. E questo fatto non mi piaceva. Volevo essere capranichese.
Vero. A tutti i costi. Dopotutto mi rivalevo così sui miei genitori, ai quali
davo la colpa di avermi strappato da Capranica all’età di due anni.
Li avevo appena compiuti quando
la mia famiglia, a Natale del ’68, si trasferì a Roma. Maledetto lavoro! A
Capranica non c’era, e Roma prometteva di dartelo. Per la mia famiglia, quindi,
la stessa strada di tante altre. Molte, direi. Tante al punto che Via Portuense
poteva essere considerata una specie di “little Capranica”. Nel mio portone, al
165, eravamo due famiglie capranichesi. A Via Ettore Rolli, cinquanta metri più
in là, vivevano altre due famiglie capranichesi. A Via Volpato c’era il grande
negozio di autoricambi dei Morera. A duecento metri da casa mia abitava mia
sorella, dalle parti di Piazzale della Radio. A Monteverde un’altra famiglia. E
alla stazione di Trastevere lavoravano più di un capranichese, a cominciare dal
mio “cumpare Gastò’”, il mio padrino di battesimo, Gastone Andreoli.
Mamma era uscita e Papà era al
lavoro, come al solito. Via de’ Prefetti, due passi da Montecitorio, un
portierato noiosissimo tra nobili inquilini (una contessa), politici in
carriera (un paio di ministri), bancari rampanti, imprenditori di successo. Ma
questo è un altro discorso.
Ricordo però che Loriana, mia
sorella, era a Roma da noi. E Probabilmente era fuori con mamma. Era incinta di
Cristina (che sarebbe nata l’anno successivo, il lunedì dell’Angelo), e forse
per questo era venuta a Roma. Magari per qualche visita dal suo ginecologo, che
aveva lo studio a qualche centinaio di metri da casa nostra, a Trastevere,
dalle parti di piazza Ippolito Nievo.
Non so che programma televisivo
stessi seguendo in quel momento. Poca scelta. Il “primo” o il “secondo”, come
si chiamavano all’epoca i due canali televisivi RAI (il “terzo” sarebbe
arrivato un paio di anni più tardi, nel 1980). Avevamo l’antenna per le TV
locali, ma non era come adesso. Alcune cominciavano a trasmettere più tardi,
soltanto in serata. Sul presto, più o meno intorno alle 15,00, la rete
S.P.Q.R., che trasmetteva sul canale 51 – e che più tardi sarebbe stata
acquistata da un signore che si chiamava Silvio Berlusconi – trasmetteva ogni
giorno un episodio del mitico Jeeg Robot. Appuntamento immancabile quello. Non
si poteva fallire per nessun motivo. Ma il pomeriggio nulla. Bisognava
aspettare le 17,00, sul “primo”, per l’inizio della mitica “TV dei Ragazzi”.
Dal momento che intorno alle
18,00 il “secondo” trasmetteva sempre notizie sportive, penso stessi vedendo il
“primo”. Non ricordo quale programma.
Ricordo però una cosa. Durante le
feste di settembre, a Sutri, mia sorella aveva registrato la banda musicale locale.
C’era una cosa, infatti, che mi piaceva tantissimo. Fin da piccolo uno dei miei
giochi preferiti era quello di cantare, e poi, più grandino, fischiettare, i
motivetti e le marcette della banda, accompagnandomi con l’apertura e la
chiusura a tempo di musica delle grosse forbici da sarta di mamma. Ne aveva un
paio nere, e si prestavano benissimo per quel servizio. Ora che avevo le
musiche mi divertivo ad ascoltarle. Mi mettevano di buon umore e mi ricordavano
Capranica, i miei amichetti, i miei cugini. A volte, ascoltandole, piangevo per
la nostalgia.
Il registratore me lo aveva
comprato papà, a via de’ Prefetti. Era un Inno-Hit, grigio, con il microfono
incorporato. Alla fine di agosto avevo cominciato a raccogliere i fascicoli di
“Tutto l’inglese” della Curcio, opera che prevedeva l’apprendimento della
lingua anche attraverso l’ascolto di audiocassette. Fatta la frusta, occorreva
il cavallo. Per cui quell’acquisto.
Un brano, soprattutto, fra quelli
registrati da mia sorella, mi rimase particolarmente impresso perché non era
nel repertorio della banda di Capranica. Una marcia lenta, per me
particolarmente bella Quando la banda di Capranica venne ricostituita grazie al
maestro Pierluigi Pontuale, il brano entrò a far parte del repertorio del
complesso. Seppi così che il suo titolo era: “Sant’Antonio”, marcia religiosa
scritta da un certo Don Pancaldi.
Ma di colpo arriva la notizia. Interruzione
delle trasmissioni e collegamento con Piazza San Pietro.
C’era stata fumata bianca. La
gente lo aveva saputo e cominciava ad ammassarsi al centro del colonnato
nell’attesa di vedere il nuovo Papa. E dire che solo un mese prima, circa i
primi di settembre, aveva riempito alla stessa maniera la piazza per salutare
un altro successore di Pietro. Papa Luciani, Giovanni Paolo I, “il papa del
sorriso”, che era rimasto nei cuori di tutti.
Ma non c’era tempo per le nostalgie…
ed anche se l’impressione per la morte improvvisa del Papa era stata davvero
enorme, ora c’era da sapere chi fosse il suo successore.
La gente festante nella Piazza
rumoreggiava dall’eccitazione e dalla gioia di poter vedere per la prima volta
dal vivo il nuovo Pontefice.
Ma ecco che qualcosa si stava
muovendo… dalla loggia laterale della basilica si stava affacciando il cardinal
protodiacono, preceduto dalla croce astile, per annunciare l’habemus Papam.
Il nome del cardinale eletto al
soglio di Pietro non lo afferrai immediatamente. Per me dodicenne, certe cose
non contavano molto. Stavo vivendo un momento storico. E ciò mi coinvolgeva
completamente. I miei occhi, soprattutto, erano attenti a registrare dalla TV ogni
più piccolo particolare. E se sicuramente ancora non potevo cogliere alcune cose,
a cui non davo assolutamente importanza, come quello del cognome del nuovo
Papa, ero invece in grado – eccome! – di carpire l’ineffabile di quell’istante
in cui qualcosa di grande si stava svolgendo. E così mi ritrovai di colpo in
ginocchio, davanti al grande televisore a valvole e in bianco e nero, Radiomarelli.
In ginocchio come in preghiera, come in un gesto di ringraziamento verso Dio e
di chiaro riconoscimento della soprannaturalità di quell’attimo unico e irripetibile.
Quando si presentò il nuovo Papa
dalla loggia delle benedizioni, passare alle lacrime fu un attimo. Così
coinvolto, dalle immagini, dalla voce del nuovo Pontefice…
“Giovanni Paolo II”, ripetevo; “Giovanni
Paolo II”. Quel nome era naturalmente la cosa che mi era rimasta più impressa.
Di prima impressione, all’uscita sul balcone, il suo incedere mi ricordò Papa
Giovanni XXIII. Un Papa a cui in famiglia eravamo rimasti da sempre
affezionati. E fu questo particolare, probabilmente, che mi portò alle lacrime…
Lacrime che ben presto mutarono in sorriso e immediata simpatia per una persona
che con quattro battute si fece amare: “Se mi sbaglio, mi corrigerete”. La
folla in Piazza San Pietro era festante ancora di più. I prelati intorno al
Papa sorridevano con benevolenza. Ed io, in onore al nuovo Papa, mi rimisi prontamente
ad ascoltare, con ancora più intenzione, la marcia di “Sant’Antonio”.
Ma stavolta con solenne
accompagnamento di rumore di forbici, e passeggiata bandistica intorno al
tavolo della sala da pranzo.
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