Abbiamo già detto che il catechismo va interamente ripensato e che forse varrebbe la pena, piuttosto che dedicarsi ai bambini (la cosa più facile), dedicarsi ai loro genitori.
Insomma, i sacramenti vanno chiesti perché ci si crede e non perché così fan tutti...
Ma affronteremo con calma anche questo argomento.
Oggi ci occuperemo della descolarizzazione del catechismo, ovvero della necessità di ribaltarne l'impostazione generale secondo schemi che più lontanamente possibile ricordino la scuola. L'idea è quella che, con un gioco di parole, il catechismo non dia l'idea della scuola.
Ma osserviamo la realtà, e lo facciamo, come sempre, analizzando ciò che si fa nella mia parrocchia (Capranica, un centro del viterbese alla falde dei Cimini).
Qui a Capranica, il catechismo viene strutturato nella maniera meno fantasiosa possibile.
Innanzitutto non ci sono "gruppi" di catechismo, ma "classi" di catechismo (e già dalla terminologia possiamo capire a che livello stiamo). All'inizio dell'anno scolastico il parroco, con la collaborazione delle istituzioni scolastiche locali, si dota dell'elenco dei nomi e cognomi degli alunni di ciascuna classe delle scuole elementari e medie. Ad ogni classe scolastica corrisponderà, dunque, una classe di catechismo (sic!).
Gli incontri vengono strutturati in "lezioncine" secondo un programma stabilito per ogni fascia di età (3^ elementare, 4^ elementare, 5^ elementare... e così via). Il programma va ovviamente portato avanti e completato indipendentemente dalle esigenze delle classi. Queste poi, risentono ab origine di qualche difetto di formazione già in sede di istituzione scolastica. Si hanno pertanto classi di tipo "A" (vorrei dire, di serie "A", ma lasciamo perdere), dove i bravi convivono con i bravi ("bravi" secondo il concetto scolastico della parola), e classi di tipo "B", in cui gli scarsi (sempre secondo il concetto scolastico del termine), coabitano con gli scalmanati, i problematici, nonché con un numero non giustificato di bambini stranieri... (con la possibilità che qualche "bravo" venga inserito comunque, in maniera del tutto casuale nelle classi di tipo "B"...). Come e con quali criteri vengono formate le classi non ci interessa saperlo - siamo sicuri che le istituzioni scolastiche facciano bene il loro lavoro - resta il fatto, comunque, che il risultato finale, quello che si palesa ai nostri occhi profani dell'arcana materia della "classazione" (ci si passi il termine), è tale da far constatare una certa differenza "di peso" tra i gruppi-classe formati.
Vi sono poi le classi "che si formano da sè", come quelle a tempo pieno, che accolgono i figli di tutti coloro che ne fanno richiesta, nell'ambito di un numero ristrettissimo di posti disponibili. Ebbene, le classi a tempo pieno diventano, quasi automaticamente e con facilità, classi di tipo "B", con un numero spropositato di bambini con situazioni familiari problematiche...
Insomma: in questo contesto si inserisce il catechismo, che ricalca pertanto in maniera perfetta la situazione scolastica.
Dulcis in fundo, la miscela viene sapientemente completata con l'ausilio - udite udite! - di catechisti che la mattina, a scuola, fanno gli insegnanti alle stesse classi alle quali fanno catechismo nel pomeriggio... Il catechismo diventa quindi una mera continuazione pomeridiana della scuola, dove i bambini continuano a chiamare le loro catechiste "maestra" come fanno la mattina in aula, e partecipano alla "lezioncina" con la stessa esasperata competitività inculcata loro dai genitori (nulla c'è di più deleterio che un genitore nell'esercizio delle sue funzioni di mamma o di papà preoccupati per l'educazione scolastica dei propri figli), secondo cui bisogna a tutti i costi essere "meglio" degli altri, essere "i più bravi" degli altri (non semplicemente bravi), essere "i primi".
Una digressione per far capire la situazione... Domenica scorsa, durante l'omelia (che il parroco cerca di semplificare il più possibile rivolgendo domandine ai bambini), una catechista (di professione ovviamente maestra elementare) seduta nel banco dietro al mio ha cominciato a suggerire le rispostine ai suoi "alunni" (diciamo le cose con il loro nome), trasformando quel momento in una gara per far vedere "quanto siamo bravi rispetto agli altri" e con il vivo compiacimento dell'ignaro celebrante (il quale credeva in buona fede che davvero questi bambini fossero così bravi...).
E allora, se questa è la situazione, vediamo come cambiarla.
- Le classi di catechismo vanno innanzitutto trasformate in gruppi. La scuola può essere utilizzata solo come canale per far arrivare le nostre comunicazioni alle famiglie, ma nell'ambito dell'inizio dell'anno catechistico. E piuttosto che incontrare i genitori dopo aver formato le classi (che come sappiamo sono già formate ex se), bisogna incontrarli prima di formare le classi allo scopo di specificare a chiare lettere che i principali attori dell'educazione cristiana dei loro figli sono loro stessi e che i sacramenti non sono un diritto ma una necessità. Non si chiede la comunione come si farebbe per un certificato di residenza o per una licenza edilizia (casi che, peraltro, richiedono stati e qualità personali ben definite dalla legge). Un certificato si "ha diritto" a richiederlo perché per la pubblica amministrazione è un "dovere" rilasciarlo e perché è del tutto irrilevante la disposizione d'animo con il quale si richiede; un sacramento no, perché lo si domanda alla Chiesa (che non è la pubblica amministrazione), con la consapevolezza di chiedere "qualcosa" che serve per la propria vita terrena e ultraterrena e perché necessita di una disposizione d'animo particolare (stato di grazia si chiama...). E la prima comunione dei figli va chiesta con coscienza, responsabilità e fede, e non fatta fare, come quasi tutti pensano, per conformarsi alla massa e perché se i nostri figli non la fanno si sentono ai margini rispetto a quelli che la fanno. Meglio non farla fare, allora, con scienza e coscienza, nonché con coerenza rispetto le proprie convinzioni e i propri comportamenti di vita, piuttosto che farla fare e testimoniare l'esatto contrario.
- I gruppi vanno formati con criteri che siano lontani dai concetti scolastici di "essere bravo" o di "essere somaro", preferendo al limite anche il sorteggio per formare compagini il più possibile eterogenee, anche al fine di evitare che le mamme (mi si rizzano i capelli per il terrore quando penso alle mamme!), chiedano di far mettere insieme i propri figli (sono amichetti/e... fanno tutto insieme...), si facciano gruppetti elitari, si escludano e si emarginino i problematici e i bambini con l'argento vivo addosso.
- Va evitato assolutamente che le maestre delle scuole elementari facciano il catechismo ai bambini delle loro classi. Preferibilmente le maestre elementari dovrebbero essere impiegate nelle medie, ma in carenza di "risorse umane" possono essere utilizzate in fasce di età che non seguono nell'ambito della scuola (che ci vuole ad assegnare a una maestra di 4^ elementare, bambini di un anno più grandi o più piccoli?).
- Vanno evitati metodi ed approcci scolastici. Già pretendere che i bambini non ti chiamino "maestra" o "maestro" sarebbe cosa grande (i miei mi chiamano semplicemente per nome, li ho abituati subito...). Va utilizzata una catechesi coinvolgente, che aiuti i bambini ad entrare negli argomenti con gli strumenti che sono loro più familiari, utilizzando pc, videoproiettori, internet, giochi... facendo far loro "esperienza" di ciò che gli viene insegnato. Insomma, va portata avanti una catechesi che tecnicamente si definisce "esperienziale", come quella abbracciata da tempo dall'Azione Cattolica (nel settore A.C.R.), ma senza gli infantilismi e le castronerie da cui questa è afflitta da un po' di anni (ovviamente per responsabilità dei suoi interpreti). Inoltre gli argomenti possono anche essere affrontati con un gioco o un canto, semplicemente in cerchio, senza tavoli (banchi?) che separino i bambini.
- Vanno coinvolti i genitori, anche invitandoli agli incontri, affrontando con la loro presenza gli argomenti da trattare (anche perché sarebbero e dovrebbero essere loro, i genitori, l'oggetto principale della catechesi, non i bambini).
- Accanto a tutto questo poi, bisogna assolutamente scrollarsi di dosso la sindrome del risultato. A scuola ci si aspettano dei risultati dai propri allievi, che vengono valutati con le votazioni dei compiti e con le pagelle. A catechismo invece bisogna accontentarsi di testimoniare e basta, di seminare senza pretendere di vedere il frutto della semina, di gettare le reti per una pesca che solo l'intervento miracoloso di Gesù può far diventare abbondante. Insomma, bisogna fidarsi ed affidarsi, senza cadere in depressione se i bambini che ci sono affidati sembrano non recepire, hanno difficoltà a comprendere, non sono supportati dalle famiglie... (anzi, bisogna diffidare dei bambini affetti da "sindrome da primo della classe", che tanto furbescamente hanno già imparato a rispondere con ciò che fa piacere all'insegnante, e aiutarli a capire che almeno a catechismo non c'è competizione...).
- Altro limite da superare è il "tutto va bene per tutti". Mi spiego. Ogni bambino è un mondo a se, fatto di una storia personale e familiare diversa e di un grado di maturità intellettiva e affettiva diversa. Ogni bambino ha i suoi occhi per guardare il mondo e per elaborare la realtà che lo circonda, con strumenti diversi da altri e che impongono un'attenzione diversa da parte del catechista nel trasferire le basi della fede. Insomma, non possiamo far finta di spiegare la "lezioncina" accontentandoci solo delle rispostine (che, abbiamo detto sopra, a volte sono date in maniera molto ruffiana e paraventa) che ci danno i bambini che sembrano più bravi e ricettivi. Dobbiamo aspettare tutti, senza lasciare indietro nessuno, personalizzando il più possibile i rapporti e i percorsi. La nostra non è una comunicazione accademica, uno-a-molti, ma uno-a-uno, attenta all'altro. E così, è chiaro che non posso parlare ai bambini di chi è il nostro prossimo, senza aver riconosciuto in loro il mio prossimo: una persona che merita attenzione, rispetto, disponibilità all'ascolto.
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